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lunedì 14 febbraio 2011

SPECIALE San Valentino

Oggi è San Valentino e, sebbene sia single, mi appresto cominque ad omaggiare la ricorrenza con uno Speciale. Questo consiste nella pubblicazione dei primi tre capitoli di "Io Sono il Numero Quattro".
P.S.So che il post è molto lungo tuttavia non sono riuscita ad inserire il testo con un collegamento ipertestuale.

BUON SAN VALENTINO!


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La porta comincia a tremare. E una struttura precaria in canne di bambù, tenuta insieme con pezzi di spago sfilacciati. La scossa è impercettibile e finisce quasi subito. Entrambi alzano la testa per ascoltare: un ragazzo di quattordici anni e un uomo di cinquanta, che tutti pensano sia il padre, ma che è nato vicino a un'altra giungla, su un altro pianeta, a centinaia di anni luce. Sono distesi a torso nudo, ciascuno su una branda protetta da una zanzariera, su lati opposti della capanna. Sentono un rumore lontano. E simile al suono di un ramo spezzato da un animale, ma sembra che in questo caso si sia spezzato un intero albero.
« Che cos'è stato? » chiede il ragazzo.
« Sstt! » replica l'uomo.
Sentono lo stridio di qualche insetto, nient'altro.
L'uomo si alza dalla branda, e intanto la porta ricomincia a tremare. Là scossa è più forte e prolungata; poi c'è un altro colpo, più vicino. L'uomo raggiunge lentamente la porta. Silenzio. Fa un respiro profondo mentre avvicina gradualmente la mano al catenaccio. Il ragazzo si mette a sedere.
« No », sussurra l'uomo.
E in quello stesso istante la lama di una spada, lunga e scintillante, fatta di un metallo bianco splendente che non si può trovare sulla Terra, penetra attraverso la por-

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ta e lo infilza nel petto. Sporge di quindici centimetri dalla schiena e viene subito ritratta. L'uomo emette un grugnito. Il ragazzo sussulta.
L'uomo fa un ultimo respiro e pronuncia una sola parola: « Corri! » Quindi cade a terra, senza vita.
Il ragazzo salta giù dalla branda e corre fuori, sfondando la parete posteriore. Non si preoccupa di usare la porta o una finestra, passa letteralmente attraverso la parete, che si squarcia come se fosse di carta, anche se è fatta di un robusto mogano. Il ragazzo corre all'impazzata nella notte africana, scavalcando gli ostacoli con agili balzi, sfrecciando a una velocità di circa cento chilometri orari. Ha vista e udito sovrumani. Scansa gli alberi, squarcia grovigli di rampicanti, supera i ruscelli con un salto. Alle sue spalle un suono di passi pesanti, che si avvicinano ogni secondo di più. Anche gli inseguitori hanno doti particolari e portano con sé qualcosa. È una cosa di cui il ragazzo aveva sentito solo qualche accenno, e che non avrebbe mai pensato di vedere sulla Terra.
Il fragore si avvicina.
Il ragazzo sente un ruggito profondo e intenso: ciò che lo segue, qualsiasi cosa sia, sta guadagnando terreno. Vede una radura nella giungla. Quando la raggiunge, si trova davanti a un'enorme gola, larga novanta me¬tri e profonda altrettanto. In fondo c'è un fiume, con giganteschi macigni sulle sponde. Se cadesse su quelle rocce, il ragazzo si sfracellerebbe. La sua unica speranza è superare con un balzo il precipizio. Non avrà molta rincorsa, è soltanto un tentativo. Una sola possibilità di salvarsi la vita. È un salto quasi impossibile, perfino per lui e per gli altri suoi simili sulla Terra. Tornare indietro, buttarsi nella gola o cercare di combattere equivarrebbero a morte sicura. Non ha alternative.

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Il rumore si fa assordante. Gli inseguitori sono ormai a una decina di metri. Il ragazzo fa cinque passi indietro e poi comincia a correre. Appena prima del precipizio, si stacca da terra e comincia a volare. Resta in aria per tre o quattro secondi, gridando, con le braccia tese in avanti, in attesa della salvezza o della fine. Atterra e ruzzola per qualche metro, fermandosi ai piedi di un enorme albero. Sorride. Non riesce a credere di avercela fatta, di essere sopravvissuto. Non vuole essere visto, però, e sa che deve distanziare gli inseguitori. Si rialza. Dovrà continuare a correre. Si volta verso la giungla.
In quel momento, una mano enorme lo prende per la gola. Il ragazzo si ritrova sospeso in aria. Si dibatte, scalcia, cerca di liberarsi, ma sa che ogni sforzo è vano; sa che è finita. Avrebbe dovuto aspettarsi che fossero su entrambi i lati e che, quando lo avessero trovato, non avrebbe avuto scampo.
Il Mogadorian lo solleva, in modo da potergli guardare il petto; per vedere l'amuleto appeso al collo: soltanto quelli della sua specie possono indossarlo. Lo strappa e lo nasconde da qualche parte, sotto il lungo mantello nero che indossa. Quando la sua mano riemerge, impugna la scintillante spada di metallo bianco.
Il ragazzo guarda il Mogadorian negli occhi neri, grandi e profondi, privi di ogni emozione. Poi dice: «Gli Eredi vivono. Si riuniranno e, quando saranno pronti, vi distruggeranno».
Il Mogadorian ride; è una risata malvagia e beffarda. Solleva la spada, l'unica arma nell'intero universo capace d'infrangere l'incantesimo che ha protetto il ragazzo finora e che ancora protegge gli altri. La lama si accende come una fiamma argentea, mentre punta verso il cielo,

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come se stesse prendendo vita, come se intuisse la sua missione, pregustando ciò che sta per accadere.
Mentre Tarma si abbassa e un arco di luce guizza nell'oscurità della giungla, il ragazzo crede ancora che una parte di lui sopravvivrà e riuscirà a ritornare a casa. Chiude gli occhi un istante prima che la spada lo colpisca. E poi tutto finisce.

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All'inizio eravamo in nove. Quando siamo partiti eravamo piccoli, quasi troppo piccoli per ricordare.
Quasi.
Mi è stato detto che la terra tremava, che i cieli si erano riempiti di luci e di esplosioni. Eravamo in quelle due settimane dell'anno in cui entrambe le lune sono sospese agli estremi opposti dell'orizzonte. Era un mo-mento di festa, e all'inizio le esplosioni furono scambiate per fuochi d'artificio. Fu un errore. Faceva caldo, una lieve brezza soffiava dall'acqua verso l'entroterra.
Me lo sento sempre ripetere: faceva caldo, c'era una lieve brezza. Non ho mai capito perché sia importante.
Il ricordo più vivido è l'immagine di mia norma: agitata, triste, con le lacrime agli occhi. Mio nonno era dietro di lei; ricordo la luce del cielo riflessa nei suoi occhiali. Ci furono abbracci, parole pronunciate da entrambi, ma non so più quali. Non c'è niente che mi tormenti di più.
Ci volle un anno per arrivare sulla Terra. Avevo cinque anni quando giungemmo. Dovevamo assimilarci alla cultura locale, per poi ritornare su Lorien quando il pianeta avesse potuto nuovamente accogliere la vita. Dovevamo disperderci, ciascuno di noi nove doveva andare per conto proprio. Nessuno sapeva per quanto tempo. Non lo sappiamo ancora. Nessuno degli altri



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sa dove io sia, e io non so dove siano loro, né quale aspetto abbiano oggi. È così che ci proteggiamo. Fin dalla nostra partenza, infatti, c'è un incantesimo su di noi: finché saremo separati, potremo essere uccisi soltanto in ordine di numero. Se ci riunissimo, l'incantesimo si spezzerebbe.
Quando uno di noi viene trovato e ucciso, intorno alla caviglia destra dei sopravvissuti si forma una cicatrice circolare. Sulla caviglia sinistra invece, fin dalla creazione dell'incantesimo loric, abbiamo una piccola cicatrice identica all'amuleto che ciascuno di noi porta. Anche le cicatrici circolari fanno parte dell'incantesimo: rappresentano un sistema di allarme, affinché ognuno di noi sappia a che punto siamo e se sarà il prossimo sulla lista del nemico.
La prima cicatrice è arrivata quando avevo nove anni. Mi sorprese nel sonno, imprimendosi a fuoco nella mia carne. Vivevamo in Arizona, in una cittadina al confine col Messico. Mi svegliai urlando nel cuore della notte, terrorizzato, mentre la cicatrice mi bruciava la pelle.
E stato il primo segnale: i Mogadorian ci avevano trovato ed eravamo in pericolo. Prima che arrivasse la cicatrice, mi ero quasi convinto che i miei ricordi fossero sbagliati, che i racconti di Henri fossero sbagliati. Volevo essere un bambino normale, fare una vita normale, ma in quel momento capii di non esserlo, al di là di ogni dubbio e di ogni possibile discussione. Ci trasferimmo in Minnesota il giorno seguente.
La seconda cicatrice è arrivata quando avevo dodici anni. Ero a scuola, in Colorado, e stavo partecipando a una gara di ortografia. Non appena cominciai a sentire il dolore, capii che cosa stava succedendo e che cosa era capitato al Numero Due. Il dolore era atroce, ma sop-

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portabile. Sarei rimasto sul palco, ma il calore mi fece incendiare il calzino. L'insegnante che gestiva la gara spense il fuoco con l'estintore e mi portò di volata all'ospedale. Il medico del pronto soccorso vide la prima cicatrice e chiamò la polizia. Quando arrivò Henri, minacciarono di arrestarlo per violenza su minore; ma non era con me quand'era comparsa la seconda cicatrice, così dovettero lasciarlo stare. Salimmo in macchina e ce ne andammo via. Nel Maine, questa volta. Abbandonammo tutto ciò che avevamo, tranne lo scrigno loric che Henri porta sempre con sé a ogni trasloco. Finora ci siamo trasferiti ventun volte.
La terza cicatrice è apparsa un'ora fa. Ero seduto su una barca, la chiatta dei genitori del ragazzo più popo-lare della scuola, che aveva organizzato una festa a loro insaputa. Io non ero mai stato invitato alle feste dei compagni di scuola. Mi ero sempre tenuto in disparte, perché sapevo che c'era l'eventualità che dovessimo partire da un momento all'altro. Da due anni a questa parte, però, era tutto tranquillo; Henri non aveva letto o sentito nessuna notizia che potesse condurre i Mogadorian a uno di noi oppure allertarci della loro presenza. Così ho fatto qualche amicizia.
Uno dei miei amici mi ha presentato al ragazzo che ha organizzato la festa. Il ritrovo era al molo. C'erano tre frigoriferi da campo, un po' di musica e alcune ragazze che avevo ammirato a distanza, ma con cui non avevo mai parlato, anche se avrei voluto. Abbiamo levato gli ormeggi e siamo usciti nel golfo del Messico, a meno di mezzo miglio dalla riva. Io ero seduto sul bordo della barca, coi piedi penzoloni nell'acqua, e parlavo con Tara, una ragazza carina coi capelli scuri e con gli occhi azzurri, quand'è successo per la terza volta.

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L'acqua ha cominciato a ribollire intorno alla mia gamba, che è diventata incandescente nel punto in cui si stava imprimendo la cicatrice: il terzo dèi simboli loric, il terzo avvertimento. Tara si è messa a gridare, e tutti si sono accalcati intorno a me. Sapevo che non c'era modo di spiegarlo e che io e Henri saremmo dovuti partire immediatamente.
La posta in gioco era più alta che mai. Avevano trovato il Numero Tre e, chiunque fosse, Tre era morto. Perciò ho cercato di calmare Tara, l'ho baciata sulla guancia, le ho detto che era stato un piacere conoscerla e le ho augurato una vita lunga e bella. Mi sono tuffato e ho cominciato a nuotare più veloce che potevo, restan¬do sott'acqua tutto il tempo, salvo prendere fiato una volta, più o meno a metà tragitto, finché non sono approdato a riva. Mi sono messo a correre in parallelo all'autostrada, appena dietro gli alberi, procedendo alla stessa velocità delle auto. A casa ho trovato Henri davanti alla schiera di monitor che utilizza per cercare notizie in tutto il mondo e tenere sotto controllo l'attività della polizia nella nostra zona. Sapeva già, senza che io dicessi una parola; ha sollevato Torlo dei miei pantaloni fradici per vedere le cicatrici.
All'inizio eravamo in nove.
Tre sono morti.
Siamo rimasti in sei.
Ci danno la caccia, e non si fermeranno finché non ci avranno uccisi tutti.
Io sono il Numero Quattro.
Lo so. Il prossimo sono io.

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Sono in mezzo al viale e guardo su, verso la casa. E color rosa chiaro, quasi come la glassa di una torta. Poggia su pali di legno, a tre metri da terra. Davanti, c'è una palma che ondeggia nel vento; sul retro, un pontile si estende per quasi venti metri nel golfo del Messico. Se la casa fosse solo un chilometro e mezzo più a sud, il pontile si troverebbe nell'oceano Atlantico.
Henri porta fuori gli scatoloni, alcuni dei quali non sono mai stati aperti dall'ultimo trasloco a oggi. Sono le due del mattino. Chiude la porta, poi deposita le chiavi nella cassetta delle lettere lì accanto. Indossa un paio di pantaloni corti cachi e una polo nera. E molto abbronzato, non si è fatto la barba e ha un'aria un po' abbattuta. Anche lui è triste perché dobbiamo partire. Carica gli scatoloni sul pianale del furgoncino, col resto delle nostre cose. « Ci siamo », dice.
Io annuisco. Restiamo lì a guardare la casa e ascoltiamo il vento che soffia tra le fronde delle palme. Ho in mano un sacchetto di sedano.
« Questo posto mi mancherà ancora più degli altri », commento.
« Anche a me. »
« È arrivato il momento del falò, eh? »
« Sì. Fai tu o preferisci che me ne occupi io? »
« Ci penso io. »

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Henri tira fuori il portafoglio e lo lascia cadere a terra. Io faccio lo stesso col mio. Poi lui va al furgoncino e ritorna con passaporti, certificati di nascita, tessere della previdenza sociale, libretti degli assegni, carte di credito e bancomat e getta tutto quanto a terra. Sono i docu¬menti che comprovano la nostra identità, tutti contraffatti.
Prendo una piccola tanica di benzina che teniamo sul furgoncino, per le emergenze. Cospargo di carburante il mucchietto di documenti. Il mio nome attuale è Daniel Jones. La storia è che sono cresciuto in California e poi mi sono trasferito qui in Florida per via del lavoro di mio padre, che fa il programmatore di computer. Daniel Jones sta per scomparire. Accendo un fiammifero e lo lascio cadere. I documenti prendono fuoco. Un'altra delle mie vite se n'è andata.
Addio, Daniel. Piacere di averti conosciuto, penso.
Come sempre, restiamo a guardare le fiamme.
Quando il fuoco si spegne, Henri si gira verso di me. «Dobbiamo andare.»
« Lo so. »
« Queste isole non sono mai state un luogo sicuro. E troppo difficile andarsene di qui alla svelta, scappare. Siamo stati sciocchi a venire qui. »
Di nuovo, annuisco. So che ha ragione, ma sono ancora riluttante ad andarmene. Siamo venuti qui perché l'ho voluto io, e per la prima volta Henri mi aveva lasciato scegliere la nostra destinazione. Siamo qui da nove mesi ed è il periodo più lungo che abbiamo mai trascorso nello stesso luogo, da quando abbiamo lasciato Lorien. Mi mancherà il sole, il caldo. Mi mancherà il geco che mi guardava dalla parete ogni mattina, quando facevo colazione. Anche se ci sono letteralmente milioni

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di gechi nel Sud della Florida, giuro che questo mi seguiva fino a scuola, anzi sembrava che mi seguisse ovunque. Mi mancheranno i temporali che spuntano dal nulla, la quiete e il silenzio che regnano la mattina presto, prima che arrivino le rondini di mare. Mi mancheranno i delfini cui qualche volta ho dato da mangiare al tramonto. Mi mancherà perfino l'odore di zolfo delle alghe che marciscono sulla spiaggia, quell'odore che riempiva la casa e s'insinuava nei nostri sogni mentre dormivamo.
« Sbarazzati del sedano, io ti aspetto al volante », dice Henri. « È ora di andare. »
Entro in un boschetto a destra del furgoncino. Ad aspettarmi ci sono già tre cervi, quelli piccoli che vivono qui alle Keys. Getto il sacchetto di sedano davanti a loro e mi accovaccio per accarezzarli a uno a uno. Mi lasciano fare, da tempo hanno superato ogni timidezza. Uno solleva la testa e mi fissa con gli occhi scuri e con lo sguardo vacuo, come se mi volesse comunicare qualcosa. Un brivido mi corre lungo la schiena. Poi l'animale abbassa la testa e riprende a mangiare.
« Buona fortuna, miei piccoli amici », dico. Raggiungo il furgoncino e mi siedo al posto del passeggero.
Guardiamo la casa rimpicciolirsi negli specchietti retrovisori, finché Henri non imbocca la strada principale, poi non la vediamo più.
E sabato. Mi chiedo che cosa stia succedendo alla festa senza di me, che cosa diranno del modo in cui me ne sono andato e che cosa diranno lunedì, quando non mi vedranno a scuola. Vorrei poterli salutare. Non rivedrò mai più tutti quelli che ho conosciuto qui. Non parlerò mai più con nessuno di loro. E loro non sapranno mai chi io sia o perché me ne sia andato. Probabil-

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mente tra qualche mese, o magari anche solo qualche settimana, nessuno di loro penserà più a me.
Prima d'immetterci in autostrada, Henri si ferma a fare il pieno. Mentre lui armeggia con la pompa della ben¬zina, io comincio a guardare l'atlante che tiene al centro del sedile. Ce l'abbiamo da quando siamo arrivati su questo pianeta. Abbiamo tracciato linee di collegamento tra tutti i luoghi in cui siamo andati ad abitare. Ormai è un reticolato che copre l'intero territorio degli Stati Uniti. Sappiamo che dovremmo sbarazzarcene, ma è l'unica cosa che ci rimane della nostra vita insieme. Le persone normali hanno foto, video e diari; noi un atlante.
Scopro che Henri ha tracciato una nuova linea, dalla Florida all'Ohio. Quando penso all'Ohio, mi vengono in mente le mucche, il mais e la simpatia della gente. So che uno degli slogan di quello Stato è: « Il cuore di tutto ». Non so che cosa s'intenda per « tutto », ma immagino che Io scoprirò presto.
Henri rimonta a bordo. Ha comprato un paio di bibite e un sacchetto di patatine. Si dirige verso l'autostrada che ci condurrà a nord. Allunga la mano verso l'atlante. « Pensi che l'Ohio sia abitato? » chiedo, scherzando. Henri fa una risata soffocata. « Immagino che qualcuno ci sia. Magari saremo fortunati e anche lì troveremo auto e TV. »
Annuisco. Magari non sarà brutto come penso. « Che ne dici del nome 'John Smith'? »
« È quello che vuoi scegliere? Ne sei sicuro? »
« Penso di sì. » Non sono mai stato un John o uno Smith.
« Più comune di così non si può. Piacere di conoscerla, Mr Smith. »
Sorrido. « Sì, mi piace 'John Smith'. »

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« Alla prossima fermata, preparerò i moduli per i documenti. »
Dopo un altro chilometro e mezzo lasciamo l'isola e imbocchiamo il ponte, procedendo a velocità di crociera. L'acqua scorre sotto di noi: è calma, e i riflessi della luna creano chiazze luccicanti sulle increspature. A destra c'è l'oceano, a sinistra il golfo. Di fatto è la stessa acqua, ma con due nomi diversi.
Mi viene l'impulso di gridare, ma non lo faccio. Sono stanco di scappare. Sono stanco d'inventarmi un nuovo nome ogni sei mesi, stanco di cambiare continuamente casa e scuola. Mi chiedo se potremo mai fermarci.

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Ci fermiamo in un'area di servizio per mangiare, fare benzina e comprare telefonini nuovi. Polpettone e maccheroni con salsa al formaggio, uno dei pochi piatti che Henri ritiene superiori al cibo di Lorien. Mentre mangiamo, crea nuovi documenti col suo computer portatile, usando i nostri nuovi nomi. Li stamperà quando arriveremo a destinazione, e tutti crederanno che siamo chi diciamo di essere.
« Sei sicuro del nome John Smith? » mi chiede.
« Sì. »
« Sei nato a Tuscaloosa, in Alabama. »
Rido. « E questa dove l'hai pescata? »
Henri sorride e indica due donne sedute qualche tavolo più in là. Sono entrambe molto sexy. Una di loro indossa una T-shirt che dice: NOI DI TUSCALOOSA LO
FACCIAMO MEGLIO.
« Ed è lì che andremo la prossima volta », aggiunge Henri.
«So che ti sembrerà strano, ma spero di restare in Ohio per molto tempo. »
«Davvero? Ti piace l'idea di vivere in Ohio? »
« Mi piace l'idea di avere degli amici, di andare nella stessa scuola per più di qualche mese, di avere una vera vita. In Florida avevo cominciato. Era fantastico, e per la prima volta da quando siamo sulla Terra mi sentivo

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quasi normale. Voglio trovare un posto in cui poter restare. »
Henri è pensieroso. « Hai dato un'occhiata alle tue cicatrici, oggi? »
« No, perché? »
« Perché non ci sei solo tu. C'è in ballo la sopravvi-venza della nostra specie, che è stata quasi completamente annientata. Sto cercando di fare in modo che tu sopravviva. Ogni volta che uno di noi muore, ogni volta che muore uno di voi, un Garde, le nostre possibilità si riducono. Tu sei il Numero Quattro; sei il prossimo della lista. C'è un'intera razza di assassini malvagi che ti dà la caccia. Al primo indizio di guai partiamo, e non ho intenzione di discuterne oltre con te. »
Henri guida per tutto il viaggio. Comprese le soste e la preparazione dei nuovi documenti, ci mettiamo circa trenta ore.
Io passo quasi tutto il tempo a sonnecchiare o a giocare ai videogame. Grazie ai miei riflessi, riesco a padroneggiare rapidamente quasi tutti i giochi; al massimo mi ci vuole una giornata. Quelli che mi piacciono di più sono i giochi ambientati nello spazio e con guerre tra alieni. Fingo di essere ancora su Lorien, di combattere contro i Mogadorian, di farli fuori, di ridurli in cenere. Henri pensa che questa cosa sia strana e cerca di dissuadermi da quei giochi; dice che dobbiamo vivere nel mondo reale, dove la guerra e la morte sono una realtà, non una finzione.
Quando finisco l'ultima partita, alzo lo sguardo. Sono stanco di stare seduto sul furgoncino. L'orologio del

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cruscotto segna le 19:58. Sbadiglio e mi stropiccio gli occhi. « Quanto manca? »
« Siamo quasi arrivati », dice Henri.
Fuori è buio, ma a ovest c'è un lieve bagliore. Passiamo davanti a fattorie con cavalli e con mucche, poi campi aridi e più in là alberi a perdita d'occhio. È esattamente ciò che cercava Henri, un posto tranquillo in cui passare inosservati. Trascorre molto tempo su Internet, per tenere aggiornato un elenco di case sparse per tutto il Paese e che corrispondono ai suoi criteri: isolate, in zone rurali, con disponibilità immediata. Mi ha detto che ci sono voluti quattro tentativi: una telefonata in South Dakota, una in New Mexico, una in Arkansas... e infine è riuscito ad affittare la casa dove stiamo andan¬do ad abitare ora.
Qualche minuto dopo vediamo le prime luci sparse che annunciano la città. Passiamo un cartello che dice:
BENVENUTI A PARADISE, OHIO 5.243 ABITANTI
« Uau! Questo posto è ancora più piccolo di quello dove stavamo in Montana », commento.
Henri sorride. « Secondo te, chi lo considera il paradiso? »
« Le mucche, forse? Gli spaventapasseri? » Passiamo davanti a una vecchia stazione di servizio, a un autolavaggio, a un cimitero. Poi iniziano le case: hanno rivestimenti di legno e sono distanziate tra loro più o meno dieci metri; quasi tutte hanno decorazioni di Halloween appese alle finestre. I piccoli giardini antistanti sono attraversati da vialetti che conducono alla porta d'ingresso.

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Al centro della città c'è una rotonda, in mezzo alla quale c'è la statua di un cavaliere che brandisce una spada. Henri si ferma. La guardiamo entrambi e ridiamo, sperando che nessun altro si faccia vivo qui con una spada. Superiamo la rotonda, e poi il navigatore satellitare c'indica un cambio di direzione. Puntiamo a ovest, fuori dalla città.
Percorriamo altre sette chilometri prima di svoltare a sinistra su una strada in ghiaietto, poi passiamo una serie di campi aperti, che probabilmente in estate sono pieni di mais, ma adesso sono spogli. Quindi attraversiamo un bosco fitto, per circa un chilometro e mezzo. Infine la troviamo, nascosta tra la vegetazione incolta: una cassetta delle lettere in metallo arrugginito, con una scritta dipinta in nero su un lato che dice: 17
OLD MILL ROAD.
« La casa più vicina è a tre chilometri di distanza », dice Henri, mentre imbocca il viale di ghiaietto, che è pieno di erbacce e cosparso di buche e di pozzanghere marroni. Si ferma e spegne il motore.
«Di chi è quella macchina?» chiedo, indicando il SUV nero dietro cui abbiamo parcheggiato.
« Presumo che sia dell'agente immobiliare. »
La casa è circondata da sagome di alberi. Al buio, ha un aspetto inquietante. E come se chi ci abitava prima fosse scappato per la paura oppure fosse stato cacciato via.
Scendo dal furgoncino. Il motore crepita e sento il calore che emana. Prendo la mia borsa dal pianale e resto lì immobile.
« Che ne pensi? » domanda Henri.
La casa è a un piano, con un rivestimento esterno in assicelle di legno. La vernice bianca è quasi tutta scro-

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stata. Una delle finestre della facciata è rotta. Il tetto è coperto da tegole bituminose nere, che sembrano deformate e fragili. Tre gradini di legno conducono a un piccolo patio con sedie scassate e traballanti. Il giardino è grande e coperto di sterpi. È da molto tempo che nessuno taglia l'erba.
« Sembra proprio il paradiso », dico.
Ci avviamo insieme verso la casa.
Una donna bionda e ben vestita, più o meno dell'età di Henri, esce dalla porta. Indossa un tailleur e ha in mano un blocco per appunti e un raccoglitore. Porta un BlackBerry agganciato alla vita. Sorride. «Mr Smith? »
« Sì », risponde Henri.
«Sono Annie Hart, l'agente dell'Immobiliare Paradise. Abbiamo pai'lato al telefono. Ho provato a chiamarla prima, ma sembrava che avesse il cellulare spento. »
« Purtroppo la batteria si è scaricata per strada. »
«Ah, che nervi quando fanno così! » replica lei.
Ci viene incontro e stringe la mano a Henri. Mi chiede come mi chiamo e io glielo dico, anche se come sempre sono tentato di rispondere semplicemente « Quattro ». Mentre Henri firma il contratto d'affitto, Annie Hart mi chiede quanti anni ho e dice che sua figlia frequenta la scuola superiore del posto e ha più o meno la mia età. La signora è molto calorosa, è gentile e chiaramente le piace chiacchierare.
Henri le riconsegna il contratto, poi entriamo nella casa. Quasi tutti i mobili sono coperti da lenzuoli bianchi. Quelli senza lenzuolo sono sepolti da uno spesso strato di polvere e di insetti morti. Le zanzariere alle finestre sembrano pronte a disintegrarsi al minimo contatto e le pareti sono rivestite di economici pannelli di

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compensato. Ci sono due camere da letto, una cucina di dimensioni modeste, col pavimento in linoleum verde, e un bagno. Il soggiorno è grande e si trova nella parte anteriore della costruzione. C'è un camino nell'angolo. Entro nella camera da letto più piccola e getto la borsa sul materasso. C'è un enorme poster sbiadito di un giocatore di football, con la divisa arancione: sta facendo un passaggio, ma sembra che sia sul punto di essere schiacciato da un omone con la divisa nera e oro. La scritta sul poster dice: BERNIE KOSAR, QUARTERBACK, CLEVELAND BROWNS.
«Vieni a salutare Mrs Hart», grida Henri dal soggiorno.
Annie Hart è sulla soglia. Mi suggerisce di cercare sua figlia a scuola, così magari facciamo amicizia.
Io sorrido e dico che sarebbe bello.
Non appena lei se ne va, cominciamo subito a scaricare il furgoncino. A seconda di quanta fretta abbiamo quando ce ne andiamo da un posto, viaggiamo molto leggeri - vale a dire coi vestiti che abbiamo addosso, col portatile di Henri e con lo scrigno loric con gli intricati intarsi che ci segue ovunque - oppure ci portiamo dietro un po' di cose, di solito gli altri computer e le attrezzature aggiuntive che Henri usa per installare un sistema di sicurezza e per cercare in Rete notizie che potrebbero essere collegate a noi in qualche modo. Questa volta abbiamo lo scrigno, i due computer più potenti, quattro monitor e quattro telecamere. Abbiamo anche un po' di vestiti, anche se non molti di quelli che usavamo in Florida sono adatti all'Ohio.
Henri porta lo scrigno nella sua stanza e insieme trasportiamo tutte le attrezzature nel seminterrato. E lì che allestirà la sua centrale, così nessun visitatore potrà ve-

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derla. Una volta portato tutto quanto all'interno, Henri comincia a piazzare le telecamere e ad accendere i monitor. « Non avremo accesso a internet fino a domattina. Ma, se vuoi andare a scuola domani, posso stampare i tuoi nuovi documenti. »
« Se rimango dovrò aiutarti a pulire la casa e a finire le installazioni? »
« Si. »
« Scielgo la scuola. »
« Allora sarà meglio che tu vada a dormire. »


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